La nuova percezione della visione dell’uomo contemporaneo ribalta la prospettiva a cui tutti gli esseri viventi erano abituati. La relazione iconologica con l’immagine ci obbliga ad una compresenza di strutture formali spesso mutuate dall’immaginario popolare più che derivanti dalla cultura “alta” dell’arte come della visione. La narrazione degli eventi è così frammentata da essere inesplicabile all’interno di un processo cognitivo che di logico ha sempre meno. La memoria si riflette sulle pareti dello screen finendo per diventare attuale quanto la previsione della relazione sociologica del futuro prossimo venturo; e l’essenza stessa dell’essere umano sta nella sua assoluta impersonalità mutogena e deviante dell’oggetto Uomo. Esso vive e si muove in un universo iperreale in cui le forme della realtà stessa derivano sempre più dagli avatar dei mondi elettronici che non dagli esseri viventi stessi. E l’immagine dell’arte, per lo meno nella cultura del terzo millennio, diviene preponderante nella relazione che noi stessi abbiamo con le alterità visuali. Non è casuale, ad esempio, che l’ultima grande innovazione letteraria, quella più contemporanea, il cyberpunk perde il timore di inserire gli elementi della cultura pop all’interno del processo di scrittura per farli diventare, anzi, centrali rispetto all’orizzonte degli eventi narrativi. Le nuove generazioni di artisti travalicano, addirittura, la necessità di rappresentare il reale per preferire le nuove forme della fascinazione dell’immagine elettronica.
Gli artisti contemporanei sono nomadi, fabbricanti di mondi. Come William Gibson o Bruce Sterling o l’ultimo Norman Spinrad non hanno paura di cavalcare la tigre delle alterità, anzi, la loro immagine è talmente più forte della stessa produzione oggettuale dell’opera da non subirne la necessità attuativa. Essi costruiscono il mondo nella mente e, attraverso il processo di attualizzazione traslata del paesaggio urbano che ci circonda, lo riproducono fino all’infinito in un rapporto di clonazione della loro vera essenza. L’elemento centrale dell’opera, deprivato di ogni struttura identificativa, si muove nei landscape della memoria o della vita contemporanea finendo per essere figura identificativa universale e, quindi, riproducibile assolutamente, nell’immaginario collettivo all’infinito. Proprio per l’uso delle immagini appartenenti al vissuto contemporaneo, Mary Cinque finisce per essere il medium sui cui si costruisce non soltanto il proprio universo ma quello comune all’intero mondo occidentale. Le sue opere non appartengono ad un mondo esclusivo e riduttivo ma si muovono all’interno di uno spazio che appartiene, ormai, in senso orizzontale all’intero corpo sociale del terzo millennio. E, nonostante l’apparente semplicità, esse negano il conforme per divenire progetto dinamico della nostra cultura urbana. Non è casuale, infatti, che la sua riproduzione delle città, traslate sulla parete dei sogni, appartenga all’osservatore dell’opera più di quando appartenga all’artista stessa. Nel suo non essere riproducibile sfugge alla visione del reale per essere successivamente letta e fruita non in maniera pedissequa ma modificata, adattata, mutata secondo l’esigenza di Mary Cinque proprio nel momento in cui si appropria dell’immagine della città. In un mondo che vive sino alla sua estrema esasperazione la sparizione della realtà, la nuova visione dell’artista napoletana finisce per essere rappresentativa nella sua negazione della produzione oggettuale di una simile contraddizione. Poichè, volenti o meno, l’arte è niente di più della vita che noi attraversiamo ogni giorno … fino alla sua estrema esasperazione.